to danni materiali. L’azione dei gruppi armati legati alle opposizioni estere si fa sempre più violenta e incurante delle conseguenze sulla popolazione civile, ma la comunità internazionale anziché agire affinché si fermi lo spargimento di sangue e si raggiunga una soluzione pacifica della crisi, si sta preparando a gettare altra benzina sul fuoco. La Gran Bretagna, seguendo l’esempio di Francia, Italia, Turchia e delle monarchie del Golfo persico, ha riconosciuto ieri ufficialmente la nuova Coalizione delle opposizioni, fondata l’11 novembre scorso a Doha, come “unico rappresentante legittimo del popolo siriano” e ha invitato la neonata organizzazione a inviare a Londra un proprio rappresentante. A dare l’annuncio è stato il ministro degli Esteri britannico, William Hague, che solo due giorni fa aveva ipotizzato la creazione di una no-fly zone su alcune aree della Siria, come quella già imposta sulla Libia, e si era detto disposto a sostenere l’iniziativa promossa da alcuni Paesi europei e volta alla rimozione del blocco imposto dall’Ue sulle forniture di armi ai ribelli.
Contemporaneamente il suo omologo turco confermava le indiscrezioni secondo le quali il governo di Ankara si appresterebbe a schierare lungo il confine batterie di missili Patriot fornite dalla Nato. Ahmet Davutoglu parlando a margine di una riunione della Lega Araba ha infatti indicato che “un accordo è stato raggiunto con i Paesi che forniscono all’Alleanza Atlantica i Patriot” e che le trattative con l’organizzazione a riguardo sono ormai giunte alla fase finale.
I missili saranno concessi con molta probabilità dalla Germania, unico Paese Nato oltre a Stati Uniti e Olanda ad averli a disposizione al momento, che già lunedì scorso aveva dato la propria disponibilità a riguardo. Si tratta di ordigni di difesa antiaerea, ma che secondo il quotidiano locale Milliyet potrebbero essere utilizzati per creare una zona di esclusione di 60 chilometri all’interno del territorio siriano in appoggio ai ribelli sunniti. Ankara riuscirebbe così a dare vita a quelle “zone cuscinetto”, già paventate alcuni mesi fa, senza tuttavia mettere alcuno stivale oltre frontiera.
A quanto pare, dunque, l’Europa e l’Alleanza Atlantica hanno scelto la via del conflitto, seppur indiretto, smentendo così le molte e inutili parole dei leader occidentali negli ultimi mesi.
Un fatto che, come ha sottolineato sempre ieri il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, contribuisce ad acuire le divergenze sul conflitto in corso fra la Russia e gli Stati Uniti. Divergenze alla base dello stallo interno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La volontà interventista di Washington è infatti stata più volte arginata dai veti dei rappresentanti del Cremlino, fra i pochi ancora disposti a impegnarsi per giungere a una soluzione pacifica e negoziata della crisi in atto ormai da 18 mesi. In questo contesto le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che ha sottolineato come la “continua militarizzazione” della crisi potrebbe trasformare l’intera regione in un “campo di battaglia”, appaiono prive di ogni significato. Il numero uno del Palazzo di Vetro pur evidenziando uno sviluppo possibile, infatti, si è ben guardato dal nominare i veri responsabili di questa militarizzazione, limitandosi a lanciare un appello a favorire gli sforzi dell’inviato di Onu e Lega araba, Lakhdar Brahimi, per una soluzione politica. Parole al vento pronunciate solo per dovere istituzionale.
Contemporaneamente il suo omologo turco confermava le indiscrezioni secondo le quali il governo di Ankara si appresterebbe a schierare lungo il confine batterie di missili Patriot fornite dalla Nato. Ahmet Davutoglu parlando a margine di una riunione della Lega Araba ha infatti indicato che “un accordo è stato raggiunto con i Paesi che forniscono all’Alleanza Atlantica i Patriot” e che le trattative con l’organizzazione a riguardo sono ormai giunte alla fase finale.
I missili saranno concessi con molta probabilità dalla Germania, unico Paese Nato oltre a Stati Uniti e Olanda ad averli a disposizione al momento, che già lunedì scorso aveva dato la propria disponibilità a riguardo. Si tratta di ordigni di difesa antiaerea, ma che secondo il quotidiano locale Milliyet potrebbero essere utilizzati per creare una zona di esclusione di 60 chilometri all’interno del territorio siriano in appoggio ai ribelli sunniti. Ankara riuscirebbe così a dare vita a quelle “zone cuscinetto”, già paventate alcuni mesi fa, senza tuttavia mettere alcuno stivale oltre frontiera.
A quanto pare, dunque, l’Europa e l’Alleanza Atlantica hanno scelto la via del conflitto, seppur indiretto, smentendo così le molte e inutili parole dei leader occidentali negli ultimi mesi.
Un fatto che, come ha sottolineato sempre ieri il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, contribuisce ad acuire le divergenze sul conflitto in corso fra la Russia e gli Stati Uniti. Divergenze alla base dello stallo interno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La volontà interventista di Washington è infatti stata più volte arginata dai veti dei rappresentanti del Cremlino, fra i pochi ancora disposti a impegnarsi per giungere a una soluzione pacifica e negoziata della crisi in atto ormai da 18 mesi. In questo contesto le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che ha sottolineato come la “continua militarizzazione” della crisi potrebbe trasformare l’intera regione in un “campo di battaglia”, appaiono prive di ogni significato. Il numero uno del Palazzo di Vetro pur evidenziando uno sviluppo possibile, infatti, si è ben guardato dal nominare i veri responsabili di questa militarizzazione, limitandosi a lanciare un appello a favorire gli sforzi dell’inviato di Onu e Lega araba, Lakhdar Brahimi, per una soluzione politica. Parole al vento pronunciate solo per dovere istituzionale.
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