Per raggiungere la moschea degli Ommayyadi bisogna attraversare il trambusto del suq. Al-Hamidiyya è il principale e affollato mercato coperto di Damasco. Lampadari, gioielli, noci, dolciumi, abbigliamento. Piccoli negozi capaci di esaudire i desideri delle donne che esprimono la variopinta femminilità damascena. Alcune col capo coperto si affrettano al richiamo dal muezzim, altre sorseggiano succo di melograno e acquistano pantaloncini di jeans. L’abito, come insegna un proverbio nostrano, non fa il monaco. Così dovrò aspettare ancora qualche giorno per scoprire quale ruolo si nasconde dietro i diversi modi di vestire.
Kinda Al Shamat è la prima damascena con cui ho il piacere di parlare. Fedelissima di Assad. Indossa il chador ed è uno dei ministri della Repubblica Araba Siriana. Il suo ministero e quello degli Affari Sociali e il suo incarico è molto delicato. Le politiche sociali, in un paese sotto attacco da oltre tre anni, sono indubbiamente nevralgiche. Da lei scopriamo che esistono donne cadute in combattimento e che, alla stregua degli uomini, la cultura siriana le considera martiri. La prima si chiamava Meirvat Said. Caduta un anno fa con addosso l’uniforme della Guardia Nazionale repubblicana siriana. E non importa se avrebbe scelto i pantaloncini di jeans al posto del velo. Come Meirvat “ci sono molte ragazze tra i diciannove e i venti anni che hanno appoggiato il governo di Assad e preso parte a combattimenti vivi” – spiega il ministro. La mappa delle combattenti non si ferma a quelle che imbracciano il kalashnikov AK 47. Ci sono quelle che spalano le macerie. Quelle che attendono il ritorno dei loro cari dal fronte, da vivi o da martiri. “Se avessi fatto altri figli avrei mandato anche loro a difendere la patria”, ha detto al ministro una madre siriana che ha perso cinque figli.
Kinda Al Shamat non è la sola portavoce del popolo femminile che abbiamo avuto l’avventura d’incontrare. Qualche giorno più tardi, poche ore prima di lasciare la Capitale per raggiungere Tartus, la giornalista Rana Esmaeel ci ha guidati negli studi di una delle più note emittenti televisive siriane: Alikhbariya. Rana non indossa il velo e qui a Damasco è molto conosciuta. Due anni fa la sua redazione è stata il bersaglio di un attentato esplosivo. Ci mostra le immagini catturate da una telecamera a circuito chiuso. Due guerriglieri del Nusra Front, formazione terroristica che ancora oggi semina terrore nei sobborghi di Damasco, piazzano due ordigni esplosivi dopo aver accuratamente ripulito gli studi di denaro e attrezzature. Quell’attentato costerà la vita al personale di sicurezza e ad alcuni operatori. Ma il prezzo che Alikhbariya ha pagato per i suoi servizi di denuncia al terrorismo fondamentalista è più pesante. Anche stavolta, nell’elenco di nomi dei reporter uccisi in questi anni, c’è quello di una donna di ventiquattro anni. Yara Abbas era la corrispondente da Homs. La città, bombardata lo scorso settembre dalla coalizione anti-Isis, è tristemente nota in seguito al doppio attentato che ha recentemente colpito il quartiere alawita di Akrama facendo strage di bambini. Chiediamo a Rana se ha paura a continuare nel suo lavoro. “Non posso fare altrimenti, sono una siriana” – risponde.
Cosi come Rana, anche Eva Sad non ha mai avuto dubbi. Eva, ventenne, è una profuga interna di Damasco. Da più di un anno vive nella cittadina Sheik Saed, in provincia di Tartus, dove hanno trovato protezione molti sfollati provenienti dalla Capitale e da Aleppo. “Hanno saccheggiato e distrutto la mia casa ma non ho mai pensato di lasciare la Siria – ragiona con semplicità Eva – chi ama il proprio Paese non lo lascia. Perché dovrei andar via di qui?”. Soldatesse, martiri, mogli, madri, infermiere, maestre, profughe interne, giornaliste. In una parola ‘combattenti’. Queste sono le donne siriane in tempo guerra.
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