martedì 30 ottobre 2012

Per gli Usa la caduta di Assad conta più della vita dei siriani

 
“La situazione in Siria è molto complessa, ma per gli Stati Uniti la cosa più importante è che Assad lasci il Paese per dare una possibilità a qualche cosa di nuovo”. Lo ha dichiarato ieri l’ambasciatore Usa a Roma, David Thorne, nel corso di un dibattito organizzato dall’agenzia di stampa italiana Adnkronos. Parole che rispecchiano in pieno la posizione dell’amministrazione di Washington sulla crisi in atto nel Paese arabo da oltre un anno e mezzo.
La Casa Bianca in questi mesi ha infatti dato prova di preoccuparsi molto più di favorire l’uscita di scena del presidente Bashar al Assad, che delle reali necessità e dell’incolumità della popolazione siriana. Lo dimostra la campagna mediatica messa in atto contro il governo di Damasco: da un lato viene dato ampio spazio alle notizie non confermate, e non confermabili, diffuse da ribelli, dissidenti e presunti attivisti anonimi attraverso la rete; dall’altro si fa di tutto per oscurare le notizie di attacchi terroristici, rapimenti e uccisioni sommarie di civili e militari, da parte delle milizie armate legate alle opposizioni estere. E mentre le prime sono continuo oggetto di discussione dei leader occidentali, che così facendo le avvalorano e ne favoriscono la diffusione, le seconde vengono quasi completamente ignorate, facendole finire nel dimenticatoio nonostante la loro importanza e fondatezza. Una strategia che ha portato gli Stati Uniti e i suoi alleati europei addirittura a non condannare gli attentati compiuti dalle truppe ribelli e dai gruppi estremisti nelle maggiori città del Paese. Attacchi che hanno provocato centinaia di vittime civili e non, bambini compresi, ma che gli Stati occidentali, gli stessi che anni fa hanno dichiarato guerra al terrorismo, fingono di non vedere anche perché in molti casi sono compiuti proprio grazie ai loro finanziamenti, al loro supporto logistico e alle armi fornite ai mercenari locali dalle monarchie del golfo loro alleate.
Soltanto ieri sono state due le autobomba esplose nella capitale siriana, facendo oltre 10 morti, una ventina di feriti e gravi danni a edifici e attività commerciali.
Ma si tratta solo di una parte delle informazioni che vengono omesse. In pochi sanno, infatti, che le milizie del sedicente Libero esercito siriano (Les), braccio armato delle opposizioni estere riunite nel Cns di Istanbul, utilizzano metodi tutt’altro che “democratici” e rispettosi dei diritti umani con i prigionieri o con i giornalisti che non si attengono alla linea dettata dall’informazione embedded occidentale. Sempre ieri il leader del Consiglio nazionale siriano, Abdel Basset Saida, è stato costretto a intervenire condannando la cattura del giornalista libanese Fidaa Itani da parte di un gruppo di ribelli siriani e chiedendone la liberazione. In un comunicato diffuso dai miliziani si legge che il reporter della tv libanese Lbc è stato catturato “perché il suo lavoro non è compatibile con la rivoluzione e i rivoluzionari siriani” e che per questo “sarà tenuto agli arresti per qualche tempo”. Come dire: se non lo capisce con le buone....
Altro segnale importante che può far capire i metodi utilizzati dalle milizie mercenarie stipendiate da Paesi stranieri è la notizia che riguarda la decisione di 29 militari dell’esercito regolare siriano di consegnarsi alle autorità turche, per evitare di finire in mano ai ribelli dopo la conquista, da parte di questi ultimi, del villaggio di Allani situato lungo il confine. Come avvenuto già altre volte, infatti, se i militari di Damasco fossero stati catturati dai miliziani del Les sarebbero stati certamente torturati e giustiziati. Pratica sostanzialmente avallata anche dall’inviato speciale per il conflitto in Siria delle Nazioni Unite e della Lega araba, Lakhadr Brahimi, che nel suo primo discorso dopo la nomina, proprio in relazione alle esecuzioni sommarie, evidenziò la difficoltà dei ribelli nel detenere i soldati catturati.

Lo stesso funzionario Onu in questi giorni sta effettuando un tour in Oriente alla ricerca di partner internazionali in grado di favorire una fine pacifica e negoziata della crisi. Tuttavia, ogni tentativo in tal senso resterà vano se prima non sarà l’Occidente a mettere fine a ogni tipo di ingerenze nel Paese arabo, le stesse che hanno portato allo scatenarsi di questa nuova guerra.

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