“C’è solo vittoria o martirio”. Il concetto chiave della resistenza
siriana viene telegraficamente espresso tra le corsie di un ospedale
militare. Quello dedicato al neurochirurgo Mahmud Shadi, ucciso negli
anni Ottanta dalla Fratellanza Islamica. Ci troviamo a Tartus, cittadina
sul mare a circa 100 km dal porto di Latakia. Davanti a noi, costretto
da un intrigo di bendaggi e tutori metallici, c’è un maggiore
quarantenne dell’Esercito Arabo Siriano. “Un colpo di mortaio mi ha
ferito mentre combattevo a Latakia”, racconta il maggiore, lasciandoci
il tempo di realizzare che le condizioni in cui versa sono quasi
disperate. Come lui, interminabili altri feriti giacciono ricoverati
nelle stanze affianco. Alcuni si rimetteranno in piedi e torneranno –
come promesso – a combattere, altri no. Tra questi ultimi c’è la lunga
schiera dei mutilati di guerra, quelli che hanno perso una gamba, oppure
un occhio, diventando così inabili alle mansioni operative.
Loro li incontriamo la sera della festa cittadina, l’evento ufficiale
al quale presenziano anche autorità del calibro di Walid Al Muhalemed,
ministro degli Affari Religiosi, e Nizar Moussa, governatore della città
di Tartus. Si tratta di un ricevimento nuziale, il ricevimento di nozze
di diciassette spose siriane e i loro rispettivi compagni. Questi
ultimi sono tutti ufficiali dell’Esercito Arabo Siriano, rimasti più o
meno gravemente feriti al fronte. La cerimonia, che s’apre con la
sfilata delle coppie, presto si anima. Nella sala ricevimenti della
città nessuno rinuncia alle danze, persino quelli che per ballare sono
costretti ad aiutarsi con le stampelle. In aria si leva una girandola di
sciarpe tricolori fregiate da stelle verdi. La tricromia nazionale
viene richiamata ovunque: sugli inserti degli abiti delle spose, sulle
coccarde appuntate alle giacche eleganti degli invitati e persino a
decorare la glassa della grande torta nuziale. La torta, come da
tradizione, verrà tagliata con la Dhū l-fiqār, la spada sacra che l’Imam
Ali ebbe in dono da Maometto. Questa spada biforcuta è l’arma simbolo
della tradizione islamica, della Siria di Assad e degli alawiti, della
Siria che schiera i suoi figli a difesa della patria. Quelli che tra
questi non fanno ritorno sono detti “i martiri” e Tartus, in tale campo,
detiene un funesto primato.
Questa località ha pagato il prezzo più salato della guerra, quello
del maggior sacrificio di vite dall’inizio del conflitto ad oggi. Il
ventenne Taleb Al Shauqra, caduto nei sobborghi di Damasco per mano dei
terroristi del Fronte al-Nuṣra, è un martire. Per le strade del suo
quartiere si tiene la sua veglia funebre: agli uomini spetta il posto
nella grande tenda da campo allestita nella via, mentre per le donne il
rito si svolge nel raccoglimento domestico. “In questo momento di
profondo pericolo per la nostra patria i nostri giovani versano il loro
sangue per difenderla, per noi i caduti sono più importanti dei santi”,
spiega il padre di Taleb. Questi giovani sono cari alla patria e non solo, anche agli Dei, al
punto da occupare un posto importante nella scala gerarchica celeste. Le
parole del padre di Taleb ci riportano alla mente un’altra
testimonianza, quella riferitaci a Damasco da Kinda Al Shamat, ministro
degli Affari Sociali. “Se avessi fatto altri figli avrei mandato anche
loro a difendere la patria”: è quanto il ministro racconta d’aver udito
da una madre siriana a cui la guerra ha strappato cinque figli. Ma le
parole più eloquenti sono quelle che non fanno rumore. Quelle dei muri
chilometrici dove le raffigurazioni dei militari uccisi sovraffollano
ogni centimetro di superficie, persino le vetrine dei negozi esibiscono
con orgoglio quei visi barbuti. Tutte barbe scure, di rado si ha
occasione di vederne qualcuna che ha avuto il tempo di farsi grigia.
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